Valentina Mastriani: da Viadana a New York

Dicono tutti – e se non sono tutti, sicuramente sono parecchi – che il momento più bello della Maratona di New York, la più famosa e probabilmente più bella del mondo, sia la partenza con “Born to run” di Bruce Springsteen sparata a diecimila decibel, che fa palpitare i cuori e alza al massimo l’adrenalina.
Per Valentina Mastriani, podista classe 1991 di Viadana, non è stato così. “E’ stato l’arrivo, una liberazione, il momento migliore. Gli ultimi 12 chilometri, col dolore al ginocchio, sono stati una sofferenza infinita ma volevo chiudere a tutti i costi la mia Maratona. Era la seconda, da quando ho iniziato a correre: la prima due anni fa a Reggio Emilia, ma senza nulla togliere a questa corsa, a New York è tutta un’altra storia”.

Il viaggio in America era legato strettamente a questo evento sportivo. “Io mi sono iscritta alla corsa e poi ho approfittato dell’occasione per fare un giro nella Grande Mela, dove non ero mai stata, col mio fidanzato. Così siamo arrivati martedì e siamo rimasti sette giorni, con la Maratona che cadeva di domenica. Penso che lo sport possa sposarsi anche con la cultura e in questo senso mi piacerebbe sia tornare a New York, sia sperimentare altre Maratone in Europa, come quella molto nota di Berlino, o ancora in Italia, ad esempio a Roma e a Venezia”.

Il tuo tempo è stato piuttosto alto. “Sì, decisamente, fuori dai miei standard: 4 ore e 46 minuti, ma sinceramente mi interessava poco. Sono partita con l’intento di godermi l’evento, non dico di passeggiare, ma nemmeno di avere tanta fretta o la “scimmia” del cronometro a tutti i costi. Inoltre, dopo il 30esimo chilometro, ho accusato un infortunio al ginocchio e lì è stata una mezza tragedia. Il mio “muro”, come lo chiamiamo noi podisti, è stato lì, ma volevo terminare ad ogni costo la Maratona, altrimenti ne avrei macchiato il ricordo, così ho stretto i denti e ce l’ho fatta. Il cronometro era l’ultimo dei problemi e dei miei pensieri, io volevo concludere bene quei 42 km”.

Il fidanzato a fare il tifo, la marea umana e spingere i concorrenti.

“I primi 20 km sono stati indimenticabili: ai lati della strada c’erano migliaia di persone che cercavano di darti il cinque e ti incitavano. E’ impressionante e molto particolare vedere gente da tutto il mondo che non si è mai vista prima di quell’istante di contatto, ma capisce il momento difficile dello sportivo, lo sforzo che questi sta facendo e così prova ad entrare in simbiosi con lui anche solo per qualche attimo. Credo di non avere mai stretto così tante mani in così pochi secondi… Soltanto lungo i ponti, per motivi di sicurezza, il pubblico non era presente. Di conseguenza tra ambiente, bellezze architettoniche che fanno parte del panorama di New York e naturalmente l’adrenalina della prima volta per me in questa Maratona non potevo proprio fermarmi. Il meteo ha aiutato, c’era bel tempo, anche se il freddo a tratti è stato pungente: però le condizioni per fare bene c’erano tutte, assolutamente”.

Alla faccia di chi dice che la Maratona è noiosa. “Serve qualcosa che può aiutarti, che può spingerti, a volte in senso quasi letterale. Perché lungo i 42 km i momenti morti e di difficoltà ci sono, per tutti, anche per i più forti del mondo: questo “qualcosa” a New York c’è ed è l’atmosfera che sta attorno alla competizione. Hai davvero la sensazione di partecipare a una manifestazione, che ha i riflettori da tutto il mondo addosso e che richiama podisti da qualsiasi parte del globo”.

Quando hai iniziato a correre? “Da sola, quasi per caso, per stare in movimento, pochi anni fa. Poi mi sono iscritta ad una associazione sportiva di Rivarolo del Re e due anni fa ho preparato la mia prima Maratona. Sono portata, per carattere, alla fatica e dunque era ovvio che puntassi alle grandi distanze piuttosto che alle gare veloci”.
Tornerai a New York? “Dopo le emozioni provate, non posso che sperare che la magia accada di nuovo. Prima però ci sono altre città da scoprire. E, chiaramente, altre Maratone da correre”.

Giovanni Gardani

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