Rebecca Bianchi, mal d’Africa…

In un momento in cui i teatri e i palcoscenici hanno chiuso e in cui il sipario è rimasto abbassato, Rebecca Bianchi ha scelto di aprire il cuore. E l’album dei ricordi. Non per rimirare scorci della sua infanzia o adolescenza, ma per rinverdire quei momenti. Dal vivo. E, come si usa dire adesso, in presenza. Facendo, al contempo, del bene. L’étoile del Teatro dell’Opera di Roma, nata e cresciuta a Casalmaggiore con il gruppo di Dimensione Danza di Nilla Barbieri, è stata nei giorni scorsi in Kenya.

Lei l’ha definita una piccola vacanza, ma in realtà la destinazione non è stata casuale: partita col figlio maggiore (di tre) Emanuele, Rebecca ha scelto Tabaka, un villaggio vicino al Lago Vittoria, dove il padre Gian Pietro Bianchi, per anni medico chirurgo operante all’ospedale Oglio Po, sta passando alcuni mesi in una delle missioni che sempre lo hanno accompagnato in carriera e che ora, da pensionato, ha più tempo per portare avanti.

“Era il 1994 – ricorda l’étoile – quando ero stata qui la prima volta, dunque ero molto piccola (Rebecca è classe 1990, ndr), ma nel villaggio di Tabaka sono tornata poi nel 2002: avevo ricordi meravigliosi, che volevo rinnovare”. La mancanza di papà (che all’attivo ha missioni pure in Sierra Leone, Zaire e Somalia), la volontà di tornare nel suo luogo del cuore. E, insieme, il buon senso e la sensibilità d’animo di non presentarsi a mani vuote. Con lei Rebecca e il figlio Emanuele hanno portato diverse valigie riempite di giochi, vestiti, occhiali: materiale necessario a regalare un sorriso ai più piccoli del villaggio, perché il Covid per fortuna da quelle parti non sta aggredendo come in Europa, ma c’è un nemico più pressante (e più mortale), che è la povertà. “Mio padre è un grande professionista e di professionisti questi Paesi hanno estremo bisogno: il vero eroe è lui, io sono soltanto venuta a trovarlo, perché ne sentivo la mancanza” racconta Rebecca, a pochi passi dall’ospedale fondato dai Padri Camilliani 44 anni fa.

“Io non mi sento una volontaria, perché non ho né qualifiche né capacità. Tuttavia questi bambini ti regalano un sorriso dal nulla e sono sempre rimasta conquistata da questo particolare: sentivo che era giusto restituire qualcosa”.

La buona notizia è la scelta di Rebecca, la cattiva è quella legata a un mondo – dello spettacolo, del teatro e della danza – che ha chiuso per un po’ (e chissà per quanto tempo), liberando in questo modo l’agenda di Rebecca. “Quello che sta succedendo alla nostra vita di artisti, messa in ginocchio dal virus, è una stilettata al cuore – spiega -: ho cercato di fare fruttare il mio tempo in questo modo, realizzando un viaggio, come mi capitava qualche anno fa, che in circostanze normali non avrei potuto vivere. Ma sul mondo dello spettacolo occorrerà una profonda riflessione”.

Il Covid, da quelle parti, è una bestia che fa paura ma al momento non graffia né ruggisce. Resta però lo spauracchio, per un sistema sanitario che si arrabatta come può e ha bisogno di professionalità importate, come quella di papà Gian Pietro. “A Nairobi e nelle città più grandi qualche caso c’è, ma in generale qui pochi possono permettersi l’ospedale – racconta Rebecca – e allora ci si cura, o si muore, in casa. Nei villaggi, più isolati e meno popolosi, i casi sono per fortuna rari”. Intanto il sorriso dell’étoile ha provato a trasmettere serenità. Gesti straordinariamente normali di chi non ha mai perso di vista, nonostante le vertigini di un palcoscenico, l’essenza della vita.

Giovanni Gardani

(Foto: Yashuko Kageyama)

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