Il miracolo di Natale (di Giampietro Lazzari)

Entro in casa e sono ancora tutti a letto. Come sempre mi privo degli oggetti che porto con me: orologio, chiavi della macchina, sigarette, accendino. Svuoto il contenuto delle tasche, alla rinfusa, sul tavolo della camera. Accidenti!..Non mi sono rimasti che tre spiccioli! Dei fogli da cinquanta e da venti che mi ero portato appresso non è rimasto nulla. Tutto perso. Quella giacca che avevo adocchiato nel negozio non la potrò comprare nemmeno in saldo, tanto meno quell’orologio che desideravo. Anzi ho fatto anche un piccolo debito che dovrò restituire entro domani. Vabbè, è andata così quest’anno. Sono stanchissimo. Mi stendo sul letto e nemmeno mi tolgo i vestiti. Puzzo di fumo. Tra poco arriveranno i parenti per il pranzo di Natale. Spero di dormire almeno un paio d’ore. Ho appena il tempo di pensare che l’indomani, anzi l’oggi stesso, e sicuramente per alcuni giorni a venire, si parlerà molto di lui, si commenterà e si riderà. Poi gli occhi mi si chiudono. Crollo istantaneamente.

Al pomeriggio del giorno prima, fra noi della compagnia del bar, c’era già aria di agitazione. E’ stasera la grande sera. Avrebbe avuto luogo il grande evento e, con lui, si sarebbe compiuto e ripetuto ancora una volta il nostro rito pagano. Di lì a pochè ore sarebbe calata l’oscurità poi la notte, e dalle ceneri dell’anno prima Lui sarebbe rinato: Il Mercante in Fiera.

Già il Mercante in Fiera… molto più di una semplice tradizione. Un qualcosa che magicamente ci teneva uniti, insieme a pochi altri eventi che ripetevamo durante l’anno e le stagioni. Il Mercante in fiera però – sebbene anche gli altri lo fossero – era più importante, e vissuto come speciale. Forse perché avveniva nella notte, e non una notte qualsiasi; la notte della vigila di Natale.

Di santo a dir la verità questo rito non aveva proprio nulla. Anzi era più vicino al paganesimo più spinto che allo spirito religioso, ma tant’è…il Mercante in fiera era così ed ogni altra appendice sarebbe inutile. Noi semplicemente lo chiamavano “Il Mercante”, quasi fosse una specie di entità, un feticcio che trovava spazio nella nostra immaginazione.

Essere partecipi del Mercante ebbe inizio per caso, ma con il tempo, con le notti, con le albe e con gli eventi la consapevolezza di appartenervi equivalse ad essere membri di una segreta congregazione, una massoneria con i suoi gesti, i suoi riti e le sue leggende.

Ti dirò di più, amico mio, fare parte del Mercante era un vero privilegio. Ed un privilegio riservato a pochi. Furono molti infatti, nel corso degli anni, coloro che chiesero di voler entrare nella setta ma solo alcuni ebbero la fortuna di potervi accedere, e quando ciò accadeva entravano da novizi, senza quasi poteri se non quello del solo potervi assistere. I più comunque rimasero fuori e non ne fecero mai parte. L’introduzione di un nuovo adepto era vagliata attentamente da una sorta di comitato composto da coloro che per la prima volta avevano dato vita al Mercante. Il Mercante del resto era un rito riservato, misterioso, contornato da un alone impenetrabile. La notte speciale prima del natale, il buio, la nebbia, la magia delle carte, la sorte, il brivido del proibito erano gli ingredienti di quella pozione che ci ammaliava e che ci tenne felici prigionieri dell’incantesimo per alcuni decenni.

Ora ti dirò dell’inizio e del tutto. Nessuno in verità ricorda il perché e il come, ma molti, molti anni fa, accadde che la notte di natale ci si diede appuntamente in un bassofondo posto tra le vie più antiche del paese. Qui, il padre di un amico che di lavoro faceva l’imbianchino, teneva il suo magazzino. Sbarrato da un portone in legno e dal piano di calpestio ancora in terra battuta, quel locale era colmo di cose del mestiere. Latte di pittura, pennelli, teli, vecchie scale e trabattelli in legno riempivano quasi interamente quello spazio. Il tutto appariva come una enorme tavolozza le cui macchie multicolori coprivano ogni superficie. All’interno trovava spazio anche una orrenda auto francese, anch’essa strumento di lavoro, di cui ancor oggi si accenna quando, con le parole, si vuole dare il senso della deformità.

Dentro il magazzino il freddo era pungente e le nostre voci erano nuvole di condensa bianca, come se già non bastasse la nebbia di quella fredda notte ad alimentare l’umidità.

Ti dicevo, caro amico, che ormai – passati quasi quarant’anni – nessuno ricorda più il perché ci demmo appuntamento proprio in quel luogo. Forse era l’unico disponibile, forse i bar dopo una certa ora chiudevano, forse là dentro non temevano di essere scoperti per il nostro gioco proibito, forse altro, non so dirti. Le leggende del resto non sono luoghi di certezze. L’unica verità – ma pure quella in parte velata – è che in quella notte di natale, all’inizio dei tempi, noi fummo là.

Tra la condensa dei fiati, il fumo delle prime sigarette, imbacuccati nei nostri giubbotti, qualcuno estrasse i due mazzi di carte e li buttò su una panca grezza.
Così iniziò la prima edizione del Mercante. Un gioco a soldi, vecchio come il mondo e cattivo come il destino.

Il gioco, anzi Il Giuoco del Mercante in Fiera ha da sempre tre regole: comprare basso, vendere alto e sperare nella buona sorte. Niente altro. Un mazziere vende le carte del primo mazzo; i compratori le acquistano al buio. Dopo averle vendute tutte il mazziere prende il secondo mazzo, uguale al primo, e comincia ad estrarre le carte. Ogni carta corrispondente, nel primo mazzo, viene così eliminata. Così facendo, quelle che via via rimangono in gioco acquistano sempre più valore, fino ad arrivare alle tre vincenti premiate dal denaro di tutto il montepremi.

Durante il giuoco, ed a mano a mano che il valore delle carte incrementa, trovano spazio le contrattazioni sulla compavendita delle carte ancora vive, ma che potrebbero morire subito dopo, se estratte. Per questo il Mercante si chiama così. Perché tutti sono mercanti: acquirenti e venditori delle loro merci, le carte. Non è poi differente da una borsa valori di una moderna city. Chi fa incetta di merci, chi, da buon cassettista, si tiene sempre quella che ha comprato sperando che duri fino alla fine, chi vende realizzando un profitto, chi compra sperando nel rialzo e nella fortuna.

Gioco banale? Si, probabilmente come tutte le transazioni che da sempre governano il mondo, ma comunque produttore di umane sensazioni specie se alimentato con somme non indifferenti per noi che di certo non navigavamo nell’oro. Speranza, sfida, capacità, cupidigia, sorte, delusione, felicità. Ti pare poco?
Come finì quella prima notte nessuno ricorda più. Chi vinse chi perse, chi rise chi pianse; non si sa. Tutto è svanito nella nebbia di quella notte di natale.
E quella, caro amico, fu la prima di una numerosa serie di Mercanti che – immancabilmente – si sono ripetuti nel tempo senza che mai sia stata persa una edizione. Mai. Proprio nemmeno una, te lo assicuro.

I Mercanti passavano e col tempo mutavano anche le nostre età, la nostra natura di ragazzi e poi uomini, le nostre condizioni di studenti poi di lavoratori, le somme a disposizione, e naturalmente anche i luoghi. Ma Il Mercante, luccicante faro nel tempo, ci aspettava sempre quella notte precisa. E noi, marinai, aspettavamo lui.
Il mondo cambiava intorno a noi, ma le modalità del rito non furono mai modificate. Vigeva un codice non scritto, tramandato da coloro che avevano partecipato alla prima edizione, e che nessuno osava mettere in dubbio. E quelle rare volte che accadde fu fonte di serie diatribe. Tuttavia i “patres” ebbero sempre la meglio e le novità, quelle rare volte che tentarono un timido capolino, furono contrastate con fermezza e mai accolte.

Una cosa però, fra tutte, contraddistingueva la cerimonia notturna: la segretezza, o supposta tale, del luogo. Esso era volontariamente e caparbiamente tenuto segreto. Nemmeno le fidanzate, nemmeno le persone più vicine potevano essere informate. Solo gi adepti, mediate il passaparola, venivano a conoscenza del luogo alcuni giorni prima. Ed esso non doveva essere divulgato per nessun motivo. Era un modo per conferire al ritrovo un alone di mistero – sempre gradito in una specie di setta – sia perché la cerchia dei componenti non doveva trovare aumento con l’introduzione di altri non ben conosciuti, e probabilmente sgraditi.

A quel tempo inoltre il gioco d’azzardo era perseguito piuttosto decisamente. Non sarebbe stata la prima volta che i Carabinieri interrompevano una bisca. Nel bar, un paio di anni prima, già erano entrati, intimando a tutti di non lasciare i tavoli da gioco, sequestrando i biglietti dove erano segnati i punti o le somme e rilevando i documenti dei presenti.

Dopo la prima edizione in quell’antro gelido e colorato, ne seguirono decine e decine in variegati e differenti contesti. Dapprima nella cantina, odorosa di muffa e vinacce, dell’abitazione di uno di noi che acconsentì ad ospitare il rito. Ciò almeno fin quando non si andò oltre la quindicina di giocatori.

Poi, appena più grandicelli, ed aumentato nel tempo il numero egli adepti, fummo sfrattati, ed il Mercante si tenne all’interno di un capannone adibito a ricovero per i mezzi meccanici di un amico i cui fratelli più grandi avevano una ditta di movimento terra. Ricordo che in quel frangente uno degli amici, dopo aver spinto un compare ad una comparvendita convulsa, si vide costretto a rifugiarsi nella buca sul pavimento dove si calavano i meccanici per la manutenzione dei camion, e dalla quale non usciva poiché minacciato dal colui che si riteneva imbrogliato e che stringeva in pugno una unta ma soprattutto grossa chiave inglese. Ci volle tempo per riportare la calma e, complice una certa agitazione generale, volò pure qualche sberla. Quello fu anche l’anno in cui si registrò la più grossa perdita che mai si ricordi. Uno di noi, forse in preda ai fumi dell’alcol, sperperò in pochi minuti tutta la tredicesima, in una forsennata corsa al rialzo su una carta che venne eliminata subito dopo. Quella carta rappresentava “il poppante”; tutti giocarono al rialzo sapendo che lui sarebbe diventato padre a breve. Già…ad ogni carta infatti ognuno tendeva a conferire un significato più o meno recondito. C’erano carte ricercate, altre meno; carte che non finivano mai di accrescere il proprio prezzo e carte che venivano sempre vendute a poco. Misteri del Mercante. Ognuno di noi aveva la sua personale cabala e vari metodi divinatori per tentare di indovinare quali fossero le carte vincenti. Nel pomeggio del giorno stesso, solitamente, tentavo di addormentarmi, sperando di poter avere un sogno premonitore o un aruspice favorevole. Ed una volta pure accadde.

Il capannone, i suoi camion ed i suoi attrezzi tennero compagnia al Mercante per molte edizioni. Forse le più agitate, dall’andamento convulso e a tratti quasi pericoloso.

Anni dopo, un poco imborghesiti, riuscimmo a tenere l’evento in una specie di ufficio. Fu quello l’anno dove, per la prima volta, il Mercante trovò spazio in un luogo riscaldato; meno fascinoso senza dubbio, ma molto più confortevole. E non ne fummo dispiaciuti. Erano il periodo dove gli yuppie spadroneggiavano e uno di di noi, fesso come loro, stravaccato su una poltrona in similpelle dentro un abito a righe troppo largo, si dava arie di condottiero d’azienda e teneva i conti del Mercante con la calcolatrice da contabilità, col nastro di carta penzolante.

Passate le sbornie del decennio favoloso vi furono anni dove il Mercante fu ospitato all’interno di un locale che tutti noi a quel tempo frequentavamo assiduamente. Avevamo convinto il gestore ad aprire, segretamente solo per noi quella notte, e con la possibilità di attingere direttamente alle spille della birra o alla cucina. Naturalmente dietro un prezzo pre pattuito. Di certo non ci costò poco, ma alla fine dei conti forse costò più a lui. Quelli furono gli anni in cui il numero degli adepti aumentò in modo notevole, e quasi, nostro malgrado, ci sfuggì il controllo. I puristi non vedevano di buon occhio tale situzione, ma tant’è, non c’era modo di tornare indietro, almeno al momento.

Il Mercante visse anni di gande partecipazione, e pure di grandi somme in ballo. Con il montepremi, in quelle edizioni sovraffollate, ci si poteva comprare un’utilitaria. Di bello c’era che – comunque – qualsiasi fosse stata la somma raggiunta e chiunque fossero i vincitori, essi appartenevano sempre del gruppo, alla setta. Tutto rimaneva, per così dire, in famiglia, tra di noi. E questo normalmente rasserenava i perdenti. Arrabbiati si, dopo la sconfitta e la perdita economica, ma solo per pochi minuti. Il giorno dopo i vincitori sarebbero stati prodighi di bevute offerte, ed una pacca sulla spalla era risolutiva di tutte le ostilità del gioco.

Più avanti ancora venimmo ospitati in una specie di circolo culturale, frequentato per lo più solo da anziani, ai quali non pareva vero che persone molto più giovani, volessero trattenersi in quegli spazi che di lì a poco sarebbero stati definitivamente vuoti ed abbandonati per ovvie ragioni anagrafiche. Alcuni di noi probabilmente avevano qualche vecchio nonno o zio soci del circolo e fu un gioco da ragazzi convincerli a darci la chiavi la notte di natale. Del resto, a ringraziamento per l’ospitalità, lasciavamo sempre una buona mancia nel cassettino del bar e svariati generi alimentari natalizi portati per la serata. I simpatici vegliardi ci volevevano bene e li avrebbero consumati nei giorni successivi, intenti nelle loro briscole. Il circolo sembrava proprio fatto per tenervi il Mercante. Un ampio tavolo di legno marrone laccato ci ospitava, quasi una tavola rotonda; su di esso dei tappeti verdi da gioco. Alle pareti, appesi in quadri o foto, ci guardavano i padri della patria e altri austeri personaggi dalle vite intrise di virtù pubbliche. Essi ci osservavano e sembrava ci giudicassero, severi, mentre noi starnazzavamo nel nostro gioco più vicino al disdicevole che alla probità dei costumi.

Negli ultimi anni di vita il Mercante fu ospitato nella baracca della gente di Po, sulle rive del grande fiume. Un luogo con un’atmosfera particolare, da delta e da blues, pieno di foto e ricordi di vecchi canottieri, di remi , di scalmi e di crostali. Una datata ma potente stufa a legna che faceva un po’ di fumo ci teneva caldi e mischiava l’odore di camino ai nostri vestiti della festa.

Ora forse dimentico qualche posto, amico mio, o forse no, non saprei proprio dire oggi. Questi di cui ti ho parlato sono quelli più significativi, ed essi – certamente – aiutavano a determinare l’atmosfera di quei tempi speciali.

Durante quelle notti poteva accadere di tutto. E spesso, nel corso di tanti e tanti anni, molte cose sono accadute, e non tutte raccontabili.
I ritrovi notturni da sempre sono forieri di sensazioni nuove. L’uomo di notte diventa diverso. Diverso è il suo sentire, nei confronti di sé, nei confronti degli altri. E quella – oltretutto – non era una notte come le altre; era la notte di Natale. La notte del Mercante.

Gli animi si agitavano nella speranza delle vincite, nella paura delle perdite, nel timore dello scorno e nella ricerca di emozioni. Quasi tutti arrivavano alla spicciolata dopo la messa di mezzanotte, I più ritardatari verso l’una e mezza. Alcuni anche dopo, verso le due. Finalmente, dopo gli improperi di rito nei confronti degli ultimi, Il Mercante poteva avere inizio. Il gran sacerdote, al cospetto ora di tutti, con le mani sollevate, poteva aprire la nottata pronunciando sempre queste parole:..”Benvenuti alla …esima edizione del Mercante in fiera; Ricordiamo le edizioni precedenti e gliene sia data gloria”. Poi tutti – attentissimi e chini sul centro del tavolo – assistevano all’apertura dei mazzi. Con massima visibilità e movimenti lenti il mazziere li liberava dall’involucro traparente che li avvolgeva. I mazzi necessitavano di essere nuovi. Sempre. E l’acquisto fatto sempre nella stessa tabaccheria e della stessa marca. Ciò dava certezza che le figure ritratte sulle carte fossero sempre quelle.

Siedevamo intorno al tavolo tenendo vicini i soci, se si avevano, e lontani i probabili nemici o gli iettatori. Qualcuno, sovente, amava presentarsi con bizzari portafortuna. Un cappello, un simulacro. Un anno un pupazzo portato all’oupo da uno dei partecipanti, avendo fallito il proprio compito, finì direttamente nella stufa fra l’ilarità generale. Ma anche di un cappello a falde larghe ricordo una ingloriosa fine. Venivano messi sul tavolo i generi di conforto, sebbene quasi tutti avessero poco prima terminato la cena della vigilia, che, nonostante la tradizione imponesse il magro, per i più era una specie di gran cenone. Il Mercante si sarebbe protratto fino all’alba o anche più e quindi, nel cuore della notte, molti sarebbero stati colpiti dalla fame. Qualcuno sempre e solo dalla sete. Il pomeriggio prima si era fatta la spesa. In più trovavano spazio panettoni, mandarini, frutta secca e vari generi alimentari sottratti dai pacchi natalizi, oltre ad un cospicuo numero di bottiglie.

Il mazziere era individuato con cura fra coloro che vantavano più esperienza e che ben avrebbero saputo tenere in mano la situzione in caso di discordia quando sul tavolo il mucchio delle banconote fosse stato importante e la tensione palpabile. Fare il mazziere al Mercante del resto era un incarico importante e tenuto in alta considerazione. Un anno, dove improvvidamente la scelta ricadde su un novello, quasi si rischiò che il Mercante si interrompesse fra urla e pugni sul tavolo a causa dell’inesperienza del giovane che mal aveva gestito un episodio poco chiaro.

Le carte venivano vendute, i biglietti delle vecchie lire e negli anni successivi degli euro, volavano sul tavolo. Dieci, venti, cinquanta, cento, cinquecento, mille…I soldi si ammonticchiavno al centro sotto il vigile controllo di ognuno e di tutti. Alcuni giocavano in solitaria altri si associavano. Le società si costituivano, si affinavano, si scoglievano, si tradivano. Alcuni creavano società dentro altre, come scatole cinesi, tanto da perdere il conto sul rispettivo dare e sull’eventuale avere. Nel frattempo le strategia, le furbizie, le piccole vendette trovavano spazio fra gli sguardi più o meno complici. Era un mondo a sé quel momento. E su tutto, sempre, come forza divina, aleggiava il Fato. Omnipresente ed incontrollabile. Esso scompagnava ogni piano, sparigliava ogni condotta, scardinava ogni strategia. Era lui il vero protagonista, lui il vero istrione sul proscenio dentro al suo teatro, Il Mercante. Noi non eravamo che piccoli comprimari, spesso indegni di recitare insieme a lui ed alla sua capacità di rivoltare le cose e le vite.

Il fumo delle sigarette aleggiava intorno a noi fino a farci lacrimare. Le grida di rabbia o di temporanea soddisfazione per l’eliminazione di carte altrui, ci rendevano rauchi, i bicchieri di troppo agitavano le menti già prese da convulsioni bramose di vittoria, finchè la stanchezza si faceva strada e l’alba – timidamente rosa – arrivava e ci somigliava nel colore dei nostri occhi assonati e arrossati.

Poi, compiuto il rito, il giorno, e il silenzio del mattino di Natale.

Qualcuno aveva vinto, tutti gli altri avevano perso. Qualcuno gioiva per l’importante somma, ma – non di meno – anche per la possibilità di poter incidere il proprio nome nell’albo d’oro del Mercante. La maggior parte aveva perso e buttato sudato denaro. Chi poco, chi molto. Ognuno raccattava le proprie cose, si infilava il cappotto ed usciva a salutare il giorno della nascita del Salvatore. Anche quest’anno il Mercante si era materializzato per noi. Anche quest’anno il rito si era compiuto. Ora a casa. A dimenticare tutto.

Lo dico sempre, amico mio, tutte le cose del mondo, umane o naturali, hanno un inizio ed una fine. Il Mercante non è sfuggito a questa legge universale. Uno degli ultimi anni, un entusiasta innovatore propose che il Mercante abbandonasse la ritualità notturna e traslocasse alla luce, nel pomeriggio del giorno successivo. Forse, sottovalutando le conseguenze, la maggioranza aderì a questa idea stolta, e ciò che era stato proposto prese sostanza.

L’ultimo Mercante che si ricordi si tenne di giorno, alla luce. E così morì.

Come un albero sradicato dalla propria terra e ripiantato in un terreno avulso, come un animale notturno costretto a cacciare di giorno, come una poesia infilzata a forza dentro un depliant pubblicitario, il Mercante si spense. Per sempre.

Il Mercante ha vissuto molti anni. Con noi tutti è stato prodigo di tante cose. Il suo rito ci ha donato per tanto tempo qualcosa di speciale e di profondamente nostro. Ritrovarsi, per decenni, a fare una cosa tutti insieme, mentre tutto intorno cambia, a me è sempre sembrato un miracolo. Non trovi?…

Giampietro Lazzari

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